Ansia e insonnia. Un circolo vizioso

Posted By : silviamarinelli

Il termine ansia può far riferimento sia ad una condizione transitoria, uno stato emozionale di un individuo in un dato momento, sia ad una variabile di personalità relativamente stabile che può caratterizzare alcuni individui e differenziarli da altri. L’ansia è l’anticipazione apprensiva di un pericolo o di una minaccia futura, reale o percepita, accompagnata da sintomi fisici di tensione. È, dunque, un costrutto bidimensionale che implica tanto aspetti cognitivi (un’attività mentale connotata da anticipazione, apprensione, preoccupazione), quanto aspetti di natura emozionale e psicofisiologica (un’attivazione del sistema nervoso autonomo e la produzione di veri e propri sintomi neurovegetativi) (Galeazzi A., Meazzini P., 2004). I Disturbi d’Ansia comprendono una varietà di condizioni diverse tra loro che condividono caratteristiche di paura e ansia eccessiva. Quest’ultima è più frequentemente associata a tensione muscolare e vigilanza, ad uno stato di apprensione e preoccupazione e a comportamenti protettivi o di evitamento. La paura, invece, è una risposta emotiva ad un pericolo imminente (reale o percepito) ed è associata a picchi più alti di attivazione del sistema nervoso autonomo e a comportanti di fuga o attacco. Nonostante ansia e paura siano differenti, spesso si sovrappongono (A.P.A., 2014). L’ansia è una risposta innata, non sempre nociva, ma spesso utile per l’individuo. Due psicologi di Harvard, R.M. Yerkes e J.D. Dodson descrissero una relazione, tra arousal e prestazioni, che esplicita chiaramente gli effetti facilitanti e debilitanti dell’ansia. Gli autori segnalano che, in caso di compiti che richiedono abilità ed impegno, il rendimento migliora progressivamente con l’aumento di viglilanza e attenzione; pertanto, un moderato livello d’ansia inizialmente risulta facilitante. Al contrario, un aumento eccessivo di attivazione può avere effetti debilitanti sulle prestazioni riducendo rapidamente la capacità di svolgere movimenti con scioltezza, di eseguire attività mentali complesse e di acquisire nuove informazioni. Qualora l’ansia dovesse aumentare eccessivamente d’intensità, sarebbero influenzate negativamente non solo la fluidità dei processi cognitivi superiori, come il ragionamento e memoria, ma anche la percezione e addirittura le sensazioni più semplici, determinando, in alcuni casi, la totale perdita di controllo. La prestazione ottimale si ha, pertanto, a livelli intermedi di attivazione (Yerkes R.M., Dodson J.D., 1908). L’ansia, inoltre, è parte di una particolare risposta automatica ai pericoli fisici, la cosiddetta risposta di attacco fuga che, da migliaia di anni, appartiene al corredo biologico degli animali e degli esseri umani. È una risposta primitiva che prepara il corpo a difendersi dalla fonte di paura ed esercita una funzione protettiva per l’organismo. I cambiamenti fisiologici diretti a fornire più forza e velocità per fuggire dal pericolo o lottare contro di esso sono di seguito elencati.

Componenti della reazione attacco fuga:
– La mente diventa vigile
– Il ritmo del respiro si fa più frequente incrementando la quantità di ossigeno disponibile per i muscoli
– Il ritmo cardiaco e la pressione del sangue aumentano favorendo il rapido trasporto dell’ossigeno e del nutrimento richiesto ai muscoli
– I muscoli si tendono e, pronti per l’azione, si preparano a contrarsi velocemente
– Aumenta la capacità di coagulazione del sangue affinché in caso di ferita si riduca la perdita di sangue
– Aumenta la quantità di sangue inviato ai muscoli e diminuisce quella per gli organi interni (stomaco e intestino). La digestione si ferma e può dar luogo ad una sensazione di nausea o di “nodo” allo stomaco
– Aumenta la sudorazione per contrastare il surriscaldamento del corpo dovuto all’attività fisica
– La salivazione diminuisce e la bocca si secca
– Il fegato libera zucchero per fornire più energia
– Il sistema immunitario rallenta. Il corpo concentra tutti i sui sforzi nell’attacco o nella fuga
(Andrews G. et al., 2003)

Appena il pericolo svanisce, così come lo sforzo fisico di fuga o di attacco, le reazioni fisiologiche scompaiono rapidamente. La risposta di attacco fuga è, quindi, particolarmente utile in presenza di un grave pericolo per l’incolumità fisica, ma porta a gravi conseguenze quando si attiva troppo facilmente o nel momento sbagliato. I pericoli per l’essere umano non sono solo di tipo fisico. L’individuo può sentirsi impaurito in altre situazioni che percepisce come minacciose. Non importa quanto la minaccia sia obiettivamente reale e grave, conta la percezione soggettiva della probabilità dell’evento temuto e della gravità delle sue conseguenze (Andrews G. et al., 2003). L’individuo genera distress nel momento in cui viene a trovarsi dinanzi a situazioni che ritiene fonte di rischio per il suo benessere. Da una prospettiva transazionale, lo stress è un concetto relazionale, un rapporto dinamico tra l’uomo e l’ambiente. Gli individui non sono semplicemente vittime dello stress, ma il modo in cui valutano gli eventi (valutazione primaria), le risorse di coping e le alternative di azione che ritengono di possedere per fronteggiare la situazione (valutazione secondaria) determinano la natura dello stress individuale (Lazarus R., 1981). Lo stress riflette, dunque, un rapporto con l’ambiente che viene percepito dalla persona come affaticante o eccessivo nelle sue richieste (Meichenbaum D., 1985). Valutare le situazioni come minacciose dipende, secondo Cassidy (1999), da una serie di fattori: variabili personali, stile cognitivo, modalità di fronteggiamento e abilità che la persona avrà appreso, sostegno sociale disponibile (Cassidy T., 1999). Un sistema d’allarme fisiologico troppo sensibile a segnali percepiti come minacciosi può, dunque, produrre una intensa reazione d’ ansia in situazioni in cui la risposta di attacco fuga è di poca utilità. Inoltre, quando lo sforzo fisico non ha luogo i cambiamenti fisiologici possono durare più a lungo, essere molto disturbanti e, spesso, come nel disturbo di panico, rappresentare una causa di apprensione e di allarme che, a sua volta, determina una maggiore attivazione della risposta di attacco fuga. In tal caso il soggetto ha paura di avere paura e diventa vittima di minacce inesistenti (Rolla E., 2017).
L’ansia, quindi, è una risposta innata, spesso utile per l’individuo ma se non gestita correttamente può diventare cronica ed essere causa di numerosi disturbi. Come indicato dagli esperti, l’ansia cronica determina numerose conseguenze negative per l’organismo.

Conseguenze dell’ansia
– Causa crisi ipertensive
– Favorisce l’infarto del miocardio e ictus cerebrale
– Determina difficoltà respiratorie con senso di pressione o costrizione al petto, sensazione di soffocamento, dispnea
– Causa gastrite ed ulcera, sindrome del colon irritabile con stipsi e diarrea, gonfiore e distensione addominale, dolori viscerali
– Riduce le difese immunitarie, quindi determina più infezioni e più patologie tumorali
– Aumenta il rischio di diabete
– Causa amenorrea, dismenorrea, impotenza, riduzione della libido, infertilità ed aborto
– Favorisce le malattie della pelle (psoriasi, eczema, vitiligine, orticaria, acne, dermatite atopica, alopecia)
– Causa osteoporosi
– Riduce la resistenza al dolore
– Peggiora le cefalee e le vertigini
– Causa deficit di memoria, confusione mentale e depressione
– Peggiora le cefalee e le vertigini
– Favorisce l’abuso di sostanze
– Altera le abitudini alimentari favorendo bulimia e anoressia
– Causa disturbi del sonno

L’associazione tra insonnia e disturbi d’ansia è clinicamente nota e scientificamente riconosciuta. L’insonnia rappresenta un fattore di rischio per il disturbo d’ansia e può manifestarsi come caratteristica clinica di quest’ultimo. Un disturbo d’ansia, allo stesso modo, aumenta la vulnerabilità al disturbo da insonnia e può aggravarne il decorso. La direzione del rapporto di rischio compare in modo bidirezionale, non è sempre chiara e può cambiare nel tempo. Difficoltà ad iniziare e/o a mantenere il sonno sono emerse nel Disturbo d’Ansia Generalizzata, nel Disturbo d’Attacco di Panico e nella Fobia sociale (A.P.A, 2014; Taylor D. et al., 2005). Con l’ICSD III e il DSM 5 scompare la distinzione tra insonnia primaria e insonnia secondaria, per lasciare il posto ad una categoria unica denominata disturbo da insonnia. Tale diagnosi viene assegnata nei seguenti casi: 1) quando il disturbo si manifesta come una condizione indipendente; 2) quando l’insonnia si manifesta in comorbidità con un altro disturbo mentale o una condizione medica o un altro disturbo del sonno. Sebbene possa essere un sintomo o un disturbo indipendente, l’insonnia è più frequentemente osservata come condizione in comorbidità (A.P.A, 2014; ICSD III, 2014). L’organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’insonnia come condizione caratterizzata da una reiterata difficoltà ad iniziare e/o a mantenere il sonno, in cui è riferita insoddisfazione riguardo la quantità o la qualità del sonno. E’ presente per almeno tre notti la settimana ed è associata ad una sensazione di fatica, stanchezza o inefficienza diurna (WHO, 1992). Stime basate sulla popolazione indicano che circa un terzo degli adulti presenta sintomi di insonnia. Il disturbo da insonnia è il più diffuso tra tutti i disturbi del sonno. Da numerose evidenze scientifiche emerge che la condizione tende a diventare persistente e cronica con effetti estremamente nocivi sulla salute. I dati indicano che l’insonnia è un fattore di rischio non solo per patologie psichiatriche, come ansia e depressione, ma anche per malattie metaboliche, cardiovascolari e neurologiche; aumenta l’infiammazione cronica; peggiora il decorso di malattie neurovegetative; riduce drasticamente la qualità di vita; incide su concentrazione, attenzione e memoria con rischi sulla sicurezza personale e sociale; diminuisce le capacità di performance in ambito scolastico e lavorativo con ricadute negative sulla sfera familiare e relazionale (NIH, 2005).
La descrizione dei principali modelli concettuali sullo sviluppo e persistenza dell’insonnia può essere utile a comprendere con maggior chiarezza le possibili interazioni tra ansia e insonnia.

Modello delle 3P di Spielman
Nel suo modello delle 3P Spielman identifica l’interazione di tre fattori alla base dell’insorgenza, sviluppo e cronicizzazione dell’insonnia: fattori Predisponenti, fattori Precipitanti, fattori Perpetuanti. Le condizioni che predispongono al disturbo da insonnia sono l’età, la familiarità, il genere e le caratteristiche individuali: è infatti noto che il sonno disturbato e l’insonnia presentano una predisposizione familiare e che il genere femminile, l’invecchiamento, i profili di personalità e gli stili cognitivi ansiosi o inclini alla preoccupazione, la predisposizione all’arousal fisiologica e cognitiva sono associati ad essa. Tra i fattori precipitanti che intervengono nel favorire l’esordio acuto del disturbo si annoverano, secondo l’autore, stress, lutti, preoccupazioni, difficoltà lavorative e relazionali e problematiche di natura medica o psichica. Le condizioni che contribuisco, invece, a perpetuarne ed esacerbarne il decorso sono: una cattiva igiene del sonno, la presenza di credenze disfunzionali sul riposo notturno, i comportamenti protettivi caratterizzati da uno sforzo eccessivo per l’addormentamento e di attenzione selettiva sugli stimoli indicativi di un sonno disturbato. Un’insonnia di breve durata è generalmente definita acuta e transitoria ed è spesso associata a fattori stressanti; un’insonnia cronica è, invece, maggiormente legata a fattori perpetuanti. I comportamenti disfunzionali che il soggetto mette in atto per cercare di sconfiggere l’insonnia e le convinzioni errate che sviluppa a proposito del proprio sonno sono, dunque, le condizioni che tendono a cronicizzare l’insonnia (Spielman A.J. & Glovinsky P., 1991). Sono qui di seguito riportati una serie di fattori individuati.

ASPETTATIVE E CREDENZE DISFUNZIONALI
– Aspettative non realistiche sulla necessità di sonno
– Concezioni erronee rispetto alle cause dell’insonnia
– Sopravvalutazioni e attribuzioni erronee rispetto alle conseguenze diurne della mancanza di sonno
– Convinzioni erronee sui meccanismi del sonno
– Convinzione erronee sul significato di un sonno normale

COMPORTAMENTI PROTETTIVI
– Dormire fino a tardi al mattino
– Effettuare dei sonnellini diurni
– Coricarsi troppo presto la sera
– Bere bevande stimolanti
– Alleggerire la giornata dagli impegni
– Evitare le attività sociali
– Rallentare il ritmo delle attività quotidiane
– Pianificare la giornata in base a quanto si è dormito
– Calcolare le ore di sonno
– Creare occasioni per recuperare il sonno perso
(Perlis M. et al.,2015)

Si evince, dalla presentazione del modello di Spielman, che aspetti di vulnerabilità cognitiva e fisiologica, quali un’eccessiva attivazione, stili cognitivi ansiosi ed inclini alla preoccupazione, la percezione dello stress e il modo in cui il soggetto vi reagisce risultano essere tra gli elementi essenziali ai fini dell’ esordio, sviluppo e a cronicizzazione dell’insonnia.

Modello basato sul ruolo dell’iperarousal
Secondo il modello cognitivo basato sul ruolo dell’iperarousal (Harvey A.G, 2002; 2005; Espie C.A., 2006; Morin C-M. 1993) l’insonnia è sostenuta da una “cascata” di processi cognitivi presenti sia di notte che di giorno. Gli autori ritengono che gli individui con insonnia soffrano di pensieri intrusivi spiacevoli ed eccessiva ansia durante il pre-addormentamento. La costante preoccupazione induce un aumento dell’arousal fisiologico e un forte stato ansioso. L’ansia eccessiva determina, a sua volta, un restringimento del focus attentivo che porta l’individuo a monitorare costantemente gli stimoli interni (sensazioni fisiche) o esterni (stimoli ambientali) che minacciano il sonno, incrementando, di conseguenza, la probabilità di non dormire. Inoltre, come evidenziato anche da Spielman, gli individui sovrastimano le potenziali conseguenze catastofiche della perdita di sonno e la probabilità dell’occorrenza di conseguenze negative sulla performance durante il giorno. Tali convinzioni inducono un incremento dell’attivazione psicofisiologica e la messa in atto di comportamenti per compensare la perdita di sonno, contribuendo ad esacerbare e cronicizzare il disturbo. Secondo Espie (2006) il sonno è un processo automatico. Tale automaticità viene meno nel momento in cui l’individuo presta attenzione in modo selettivo al sonno e si sforza a tutti i costi di dormire. L’autore sostiene che gli elementi principali che determinano la cronicizzazione dell’insonnia sono: attenzione selettiva, intenzione esplicita e sforzo. La focalizzazione specifica dell’attenzione (attentional bias) sul proprio sonno determina la necessità di formulare una sorta di piano per debellarla. Il processo intenzionale riguarda tutte le azioni mentali e i comportamenti che, in modo strategico, vengono messi in atto per combattere l’insonnia. Tale intenzionalità trasforma, quindi, un processo automatico, il sonno, in una serie di azioni pianificate. Il processo successivo sarà quello di autovalutare continuamente il proprio sonno e di canalizzare tutte le energie e forze nel tentativo di dormire. Quest’ultimo rappresenta l’atto finale che porta alla completa disregolazione dei meccanismi automatici legati al sonno. Secondo Morin (1993), inoltre, l’eccessivo arousal disturba la naturale sequenza rilassamento-sonnolenza-addormentamento e induce, a lungo andare, il soggetto ad associare il letto (o la camera da letto) con l’ansia di non dormire. Il processo di condizionamento fa si che il letto e la camera diventino segnali in grado di elicitare distress e frustrazione legata ai tentativi fallimentari di prendere sonno. D’altro canto, stimoli interni come l’iperattività cognitiva, l’ansia anticipatoria e l’arousal fisiologico si configurano, essi stessi, segnali per un ulteriore incremento di attivazione esacerbando le difficoltà di sonno. Le conseguenze diurne, quali irritabilità, fatica e stanchezza porterebbero ad un incremento dei pensieri negativi rispetto al proprio sonno e alla propria condizione creando un vero e proprio circolo vizioso (Perlis M. et al.,2015). In sintesi, i modelli di riferimento indicano, chiaramente, che nell’insonnia si ha un’iperattivazione del sistema dello stress che si traduce in iperarousal cognitivo e fisiologico, il meccanismo fisiopatologico che sostiene insonnia e l’ansia, determinando un aggravarsi di entrambe le condizioni. Nel disturbo da insonnia, quindi, l’ansia può causare ed aggravare il problema e, affiancata da episodi di ‘rimuginio’, contribuisce a stimolare i meccanismi che promuovono la veglia ostacolando il normale processo del sonno: può essere presente una difficoltà ad addormentarsi (aumento della latenza di sonno) o una difficoltà nel mantenere il sonno con un aumento dei risvegli notturni. L’insonnia, a sua volta, genera ulteriore ansia aggravando il decorso di un disturbo esistente. Il legame tra ansia e insonnia è di particolare evidenza clinica nel disturbo d’ansia generalizzata. Il DSM 5 annovera tra i criteri diagnostici del GAD una difficoltà ad addormentarsi e/o mantenere il sonno. Il disturbo d’ansia generalizzata è caratterizzato da un eccessivo, persistente e diffuso stato di preoccupazione relativo ad una quantità di eventi e attività. Le preoccupazioni sono pervasive e difficili da controllare e si accompagnano, spesso, a tensione muscolare e sintomi di iperattivazione vegetativa, irrequietezza, affaticamenento, difficoltà a concentrarsi e vuoti di memoria. I soggetti con DAG sperimentano una reazione di allarme e una percezione generale di minaccia per una serie di circostanze quotidiane, con conseguente compromissione del funzionamento in ambito personale, sociale e lavorativo (A.P.A., 2014). La componente prevalentemente cognitiva dell’ansia, cui ci si riferisce con il termine di preoccupazione o “cognitive worry”, è centrale nel disturbo d’ansia generalizzata. La componente più prevalentemente fisiologica ed emozionale ha trovato invece spazio e attenzione soprattutto nel costrutto di attacco di panico. Benché il termine “worry” sia stato introdotto inizialmente per indicare una componente dell’ansia, vi sono ormai sufficienti evidenze scientifiche perché possa essere considerato un costrutto a sé, anche se associato all’ansia e alla paura (Galeazzi A. & Meazini P., 2014). Lo studioso a cui si deve principalmente l’approfondimento teoretico e sperimentale del fenomeno è Thomas D. Borkovec, che a tale problema approdò dopo una lunga attività di ricerca sull’insonnia e sulle intrusioni cognitive implicate nell’insonnia. La definizione di “worry” da lui proposta, oltre 15 anni fa, rimane tutt’ora ampiamente condivisibile: “ Una catena di pensieri o di immagini, gravata da emozioni negative e relativamente incontrollabile”. Il processo di “worry” rappresenta un tentativo di impegnarsi in un problem solving mentale su una questione dall’esito incerto dove esistono possibilità di esito negativo. Di conseguenza il “worry” si connette strettamente al processo di ansia e paura (Borkovec T.D., et al., 1998). Sassaroli e Ruggiero suggeriscono che la traduzione migliore e tecnicamente più appropriata sia “rimuginio”. Il termine “rimuginio” sembra infatti più adatto, in accordo con Borkovec (1998), a riferirsi ad un fenomeno in cui: 1) vi è una forte predominanza del pensiero verbale negativo; 2) avviene una inibizione della processazione emotiva, con una conseguente persistenza delle emozioni sgradevoli ed una totale assenza di modulazione relativa ai contenuti rimuginativi. Al pari dell’ansia e della paura, il “worry” è originariamente un processo adattivo associato alla funzione di sopravvivenza: ha l’effetto di mantenere alti livelli di vigilanza in vista di un possibile danno; richiama e concentra l’attenzione sul problema; spinge a trovare soluzioni. In altre parole, può essere assimilato ad un processo di problem solving. Il “worry” che diventa patologico è invece un’esperienza indesiderata e per sua natura incontrollabile ed auto-perpetuantesi. Le sue forme croniche e gravi si svilupperebbero in persone che: 1) percepiscono sostanzialmente il mondo come un posto pieno di pericoli; 2) temono di non avere in sé le capacità per far fronte agli eventi futuri (Sassaroli S. & Ruggiero G.M., 2003). Il “rimuginio” è accompagnato da tensione muscolare e attivazione vegetativa e può avere effetti deleteri sulla salute fisica e mentale. Come già evidenziato nel presente articolo, la “ruminazione ansiosa” può favorire lo sviluppo e la cronicizzazione dell’insonnia (Harvey A.G., 2000). Inoltre, uno studio del 2017, recentemente pubblicato sul “Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry” da Meredith Coles e Jacob Nota, della Binghamton University, nello stato di New York, indaga il legame tra scarsa qualità del sonno e i meccanismi neuropsicologici che ci consentono di ignorare i pensieri negativi. Gli autori hanno dimostrato che negli individui con alto livello di pensieri negativi ripetitivi, “rimuginio” o “ruminazione ansiosa”, un sonno di minor durata e maggiori difficoltà nell’addormentarsi sono correlati all’ incapacità del soggetto di distogliere l’attenzione dalle informazioni negative contenute nelle immagini presentate dagli sperimentatori durante le prove. Un sonno inadeguato contribuisce, quindi, a rendere l’individuo più esposto al “rimuginio” e alla fissazione su preoccupazioni e pensieri negativi, che a sua volta determinano ulteriori problematiche legate al sonno. Si evince, dunque, come nei casi di comorbidà tra insonnia e ansia sia indispensabile impostare un trattamento per entrambe le condizioni (A.P.A., 2014). E’ fondamentale, inoltre, inquadrare le patologie psichiatriche all’interno di una prospettiva bio-psicosociale che consideri come l’insorgere di un disturbo non sia ascrivibile ad un solo fattore (che non può essere considerato di per sé necessario e sufficiente), ma derivi dalle interazioni continue tra geni, ambiente e processi psicologici. In un’ottica multidimensionale, che ipotizza la costante interazione tra fattori endogeni ed esogeni, emerge, quindi, la necessità di un intervento integrato che tenga conto della singola soggettività individuale (Blundo C., 2011). Come evidenziato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), attualmente, i campi di maggior sviluppo per il trattamento dell’ansia e dell’insonnia sono essenzialmente: il trattamento farmacologico, il trattamento cognitivo comportamentale, il trattamento psicoeducativo.

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